di Giuseppe Marzo
La procedura di allerta prevista dalla nuova riforma del diritto fallimentare ha offerto nuovo stimolo all’impiego dello Z-score di Altman come strumento utile a presagire le probabilità di fallimento di un’impresa.
Il modello di Altman è una funzione lineare di variabili che rappresentano alcuni indici di bilancio selezionati mediante l’analisi discriminante lineare multipla. Sostituendo il valore degli indici di un’impresa alle variabili della formula, si ottiene un punteggio (score) che, se inferiore ad una certa soglia, indica che un’impresa ha un’elevata probabilità di fallire. A partire dal 1968, anno in cui lo Z-Score fu proposto per la prima volta, se ne sono elaborate varie versioni, applicabili a specifiche tipologie di imprese. Questa presentata di seguito è la funzione elaborata nel 1993 per le imprese non-quotate:
Z’ = 0,717 × Capitale Circolante Netto /Totale Attivo+0,847 × Utili non distribuiti/Totale Attivo +3,107 × EBIT/Totale Attivo +0,420 × Patrimonio Netto Contabile/Totale passività +0,998 × Ricavi/Totale AttivoCon questo modello, score inferiori a 1,23 vengono associati a probabilità di fallimento, e score superiori a 2,90 vengono associati ad imprese sane. Per punteggi compresi tra le due soglie il modello non consente alcuna previsione.
Si tratta di un modello che ha molti vantaggi: è facilmente applicabile; viene costantemente rivisto e rivalutato da ricercatori e istituti di analisi finanziarie; presenta un’efficienza previsionale notevole specie se comparata ai suoi costi applicativi.
La disponibilità di tutti questi vantaggi potrebbe però condurre a impiegare il modello trascurando alcuni aspetti che invece meritano attenzione. Questo post ne discute cinque con l’intento di migliorare l’impiego del modello.
1. Non arrivare troppo tardi
Sin dalla sua formulazione originaria, il modello ha una buona capacità previsionale entro un anno dal bilancio analizzato. In altre parole, il modello identifica la probabilità di fallire entro un anno dalla data del bilancio analizzato. Se pensiamo che il bilancio pubblico è disponibile, in molti casi ad aprile, e che anche la bozza di bilancio per uso interno non è sempre pronta in tempi brevi dalla chiusura dell’esercizio, ne deriva che l’informazione ottenuta dal modello lascia comunque poco spazio a manovre che non siano semplicemente di contingenza.
Uno studio condotto da Altman e Hotchkiss (Altman, E.I. and Hotchkiss, E. (2006), Corporate Financial Distress & Bankruptcy, J. Wiley & Sons, Hoboken, New Jersey) associa i punteggi di una versione dello Z-Score ai giudizi di rating espressi da Standard and Poor’s.
Ciò significa che il risultato del modello non è più solo un responso in termini di probabilità di fallimento o continuità aziendale, ma anche una simulazione del giudizio di rating da associare ad un’impresa. Il che è utile poiché consente di trattare il tema della crisi non già come un evento, ma invece come il risultato di un percorso che può essere monitorato. Infatti, se si nota che il valore dello score peggiora nel corso del tempo, se ne può dedurre un aumento delle probabilità di fallimento, e quindi la necessità di porre maggior attenzione alla rischiosità dell'impresa. Ciò consente di alleviare la criticità evidenziata al punto precedente.
Il modello, seppur statisticamente efficiente, non è infallibile. Si tratta si un modello statistico che “funziona in media”. Esso può produrre risultati errati in una duplice direzione: il falso positivo, che etichetta come fallibile un’impresa invece sana; e il falso negativo, che invece identifica come sana un’impresa con elevata probabilità di fallimento.
Esso va perciò usato come spunto per condurre un approfondimento delle condizioni di continuità dell’impresa, e non come un modo per emettere una sentenza definitiva sul suo stato di salute.
Legata alla riflessione di cui al punto precedente è questa: l’uso acritico del modello può generare il fenomeno delle “profezie che si autoavverano”. Si pensi, ad esempio, al caso di un’impresa la cui richiesta di nuovi prestiti rifiutata dalle banche che, adottando il modello di Altman (o simili), hanno etichettato quell’impresa come probabilmente insolvente.
L’assenza di tali nuove risorse potrebbe impedire all’impresa di onorare i debiti attuali ed eventualmente altri che nel frattempo sorgeranno, portando così l’impresa allo stato di insolvenza che i modelli impiegati dalle banche avevano predetto. Ma, e la domanda coglie il problema di fondo, quanto hanno contribuito alla crisi d’impresa quei modelli? Cosa sarebbe accaduto se i modelli in questione (sia pure per un errore di calcolo!) avessero predetto a vantaggio dell’impresa un futuro possibile e diverso dall’insolvenza? Probabilmente le banche avrebbero erogato i finanziamenti richiesti, l’impresa avrebbe assolto le sue obbligazioni e forse avrebbe potuto ripartire per percorsi di consolidamento e sviluppo. Attenzione perciò a pensare che i risultati del modello siano ineluttabili e capaci di predire con certezza il futuro.
Se il modello diventa lo standard riconosciuto per la previsione della crisi, è possibile che si generino incentivi volti a gabbare il modello. Ad esempio alcune imprese, consapevoli che il loro stato di crisi potrà essere intercettato, potrebbero applicare politiche di bilancio orientate a manipolare gli indicatori del modello. O, addirittura, potrebbero generare comportamenti che modificano realmente gli indici ma peggiorando la situazione aziendale. Un esempio per chiarire. Uno degli indici su cui il modello si basa è il rapporto tra Capitale Circolante Netto e Totale Attività.
Un’impresa potrebbe aumentare il valore di questo indice (e, a parità di tutto il resto, il suo Z-Score) combinando politiche di incremento dei crediti commerciali e del magazzino (per aumentare il numeratore) con politiche di cessione di beni aziendali (per ridurre il denominatore). In questo modo però al miglioramento dello score si potrebbe affiancare una situazione finanziaria peggiore, per i maggiori investimenti in circolante e la minor disponibilità di beni aziendali.